L’allarmante abbassamento del Po verificatosi in questi mesi rappresenta una chiara fotografia dell’emergenza siccità che abbiamo di fronte. In molti tratti esso si è trasformato in un rigagnolo con livelli idrometrici che a marzo già raggiungevano le medie di inizio agosto. In sostanza, la portata del Po registrata in molti dei punti di rilevazione è quasi dimezzata, con il conseguente aumento della salinità delle acque.
Nella zona del Delta, infatti, non incontrando la resistenza del fiume le acque marine penetrano all’interno causando danni a habitat ed ecosistema, infiltrandosi nelle falde acquifere e rendendole inservibili per usi agricoli. Con conseguente perdita di riserve idriche e terreni che vedono minata la propria fertilità.
La situazione qui tratteggiata non si limita al Po ma riguarda l’intero Nord. Da inizio anno si sono registrati due periodi in cui l’assenza di precipitazioni è durata ben 28 giorni. Durante l’inverno Torino, Milano e Bologna hanno visto cadere rispettivamente 35mm, 80mm e 90mm di pioggia (meno della metà delle precipitazioni medie previste).
A soffrire sono tutti i bacini idrografici del Nord, grandi laghi compresi. Il livello di riempimento del lago Maggiore, ad esempio, è stato del 31,5%, quello di Como del 10,6%, mentre il lago d’Iseo si è attestato sul 13,4%. L’unico ad avere un livello sufficiente è il Lago di Garda con un riempimento pari al 90%. La situazione non migliorerà in primavera, quando si verifica il consueto scioglimento delle nevi. Grande assente di questo inverno è stata proprio la neve, con uno zero termico che si è spostato sempre più in alto sulle Alpi, provocando lo scioglimento della maggior parte degli accumuli al di sotto dei 2.000 metri. Il contributo niveo non sarà dunque quello normalmente previsto.
Il quadro qui delineato appare simile a quello della grande siccità del 2007, la peggiore degli ultimi lustri. Le conseguenze del 2019 saranno persino peggiori di quelle occorse nell’estate di due anni fa, quando i danni all’agricoltura, calcolati da Coldiretti, ammontarono a circa 2 miliardi. Ancora è presto per parlare di grave crisi nel settore, ma è fuor di dubbio che l’attuale situazione idrica, senza miglioramenti nelle precipitazioni nei prossimi giorni, è destinata a peggiorare quando la necessità di acqua per l’irrigazione aumenterà con l’inizio della stagione agricola.
Non è però solo la siccità a minacciare l’agricoltura della pianura padana: ad essere fuori dalle medie stagionali sono anche le temperature, tanto da aver dato luogo al fenomeno della cosiddetta “finta primavera”, anticipazione del risveglio dei germogli che ne mette in pericolo la sopravvivenza. Essi restano infatti vulnerabili alle possibili gelate, con conseguenti ulteriori danni all’economia agricola.
L’Italia è il secondo Paese europeo, dopo la Spagna, per superficie irrigata. L’agricoltura rappresenta circa il 2% del nostro Pil, oltre ad essere uno dei settori simbolo del made in Italy. L’importanza del settore anche in termini occupazionali dovrebbe imporre maggior attenzione nell’agenda politica, soprattutto per tutelare e salvaguardare il patrimonio idrico nazionale. Se, infatti, gli effetti del riscaldamento globale non possono essere combattuti dall’Italia da sola, i devastanti effetti che questo ha sul nostro Paese possono essere mitigati attraverso un uso più sostenibile delle risorse ed investimenti mirati nelle infrastrutture.

Tali investimenti sono resi ancor più necessari se si considera che le infrastrutture idriche nazionali sono tra le peggiori d’Europa, vecchie, antiquate e decisamente poco efficienti. La perdita di acque a livello nazionale a causa del cattivo stato della rete idrica è pari a circa il 40%. Il dato non deve però stupire: circa il 60% delle infrastrutture è infatti stato messo in posa oltre 30 anni fa (percentuale che sale al 70% nei grandi centri urbani), di queste circa il 25% supera i 50 anni.
La questione della gestione delle acque pubbliche merita un dibattito più approfondito: a tal proposito è ferma alle Camere una proposta di riforma del settore che punta ad escludere le società private in favore di enti pubblici, con l’obbligo per questi ultimi di reinvestire tutti i proventi della gestione nell’ammodernamento e nella manutenzione delle infrastrutture. Lo stesso costo dell’acqua è sintomatico dello scarso rilievo che si dà al problema. Per comprendere come nel nostro Paese tale risorsa sia data per scontata, basti pensare che a Roma l’acqua costa circa 1,62 euro al metro cubo, mentre in altre capitali europee (ad esempio Amsterdam, Zurigo e Bruxelles), esso è superiore ai 7 euro.
Per far fronte all’emergenza, il Ministero delle infrastrutture ha varato lo scorso dicembre il Piano invasi, che prevede lo sblocco di fondi pari a 250 milioni di euro allo scopo di finanziare opere di ammodernamento ed espansione di opere di collettizzazione delle acque. Gli invasi artificiali sono infatti fondamentali per la raccolta e l’immagazzinamento delle acque, riserve dalle quali poter attingere in periodi di crisi idrica come quella che si prospetta per l’estate in arrivo.
Ben il 20% del territorio italiano è a rischio desertificazione nel prossimo secolo, dato che necessita un monitoraggio costante ed interventi tempestivi. Per fronteggiare gli effetti del cambiamento climatico si renderanno dunque necessari investimenti sempre maggiori che, a fronte dei vincoli di bilancio, richiedono una chiara comprensione di quali opere siano prioritarie per il nostro Paese.