La terra allo stremo. Perché non possiamo più aspettare per cambiare modello di sviluppo

L’Earth overshoot day è il giorno in cui l’umanità esaurisce le risorse ogni anno prodotte dalla Terra: da quel momento in poi la popolazione terrestre vive in “credito”, consumando più di quanto venga prodotto naturalmente. La data, calcolata annualmente dal “global footprint network”, negli ultimi 20 anni è arrivata sempre più presto e nel 2019, record storico negativo, si è “celebrata” il 29 luglio. L’Italia, nella classifica dei Paesi che consumano più risorse rispetto a quelle prodotte, si colloca al quinto posto e si calcola che per soddisfare il fabbisogno dei cittadini italiani sarebbero necessarie 4,7 “Italie”.

Gli studi sul riscaldamento climatico si stanno concentrando sempre di più, per sensibilizzare maggiormente governi e cittadini, sull’impatto che questo avrà sulla sicurezza alimentare, evidenziando le criticità esiziali qualora non venga operata un’inversione di rotta.

Non è un caso che il report annuale dell’IPCC (Intergovernmental panel on climate change, ossia il comitato scientifico dell’ONU sul cambiamento climatico) dedichi proprio al rapporto tra “Cambiamento climatico e terra” un approfondimento speciale, analizzando come il riscaldamento globale sarà nei prossimi anni un fattore ineludibile per garantire la nostra sopravvivenza. Anche le modalità con cui gestiamo il suolo e le nostre scelte alimentari possono avere un ruolo centrale nel mitigarne gli effetti.

In breve lo studio mira a dimostrare come uno sfruttamento sostenibile delle risorse possa contribuire a contrastare il fenomeno del riscaldamento globale, senza però sottovalutare la necessità di ridurre le emissioni di gas serra, così da contenere il surriscaldamento della terra al di sotto dei due gradi. Senza un cambio di paradigma assisteremo infatti ad eventi climatici sempre più estremi, desertificazioni da un lato ed intense precipitazioni dall’altro, che degraderanno il suolo strappando terreni coltivabili all’umanità.

Non solo. Le tristi notizie delle ultime settimane forniscono un ottimo esempio delle conseguenze di un aumento vicino ai 2° della temperatura media terrestre. Le regioni in cui i cambiamenti sono più rapidi ed evidenti sono le zone polari come la Groelandia e la Siberia. In Groenlandia si è registrato il picco di calore più elevato dal 2012, con temperature di circa 23° che hanno portato 10 miliardi di tonnellate di acqua a riversarsi in mare. Per rendersi conto dell’impatto di questo evento, basti pensare che l’acqua scioltasi in due giorni basterebbe da sola a ricoprire l’intera Germania per 7 centimetri di altezza.

Evento altrettanto catastrofico si sta verificando in Siberia, dove nell’ultimo anno è andata in fumo una superficie di foreste grande quanto la Grecia. Incendi che non solo rappresentano una diretta conseguenza dell’aumento delle temperature ma che producono effetti deleteri a loro volta, come la creazione di black carbon (ossia di particelle nere che andandosi a depositare nell’Artico rischiano di diminuire l’albedo, la capacità riflettente dei ghiacci) e l’emissione di enormi quantità di CO2 nell’atmosfera.

Al fine di ridurre tale emissione di CO2, l’IPCC ha individuato come obiettivo primario quello di un migliore e più sostenibile sfruttamento del suolo. Infatti agricoltura, attività forestali ed allevamento sono nel complesso responsabili di oltre il 30% delle emissioni di gas serra. Nello specifico, lo studio sopracitato ha evidenziato come, per quanto un sistema interamente improntato su uno stile di vita vegetariano sarebbe altrettanto insostenibile, una diminuzione della produzione di carne è necessaria. In particolare viene puntato il dito contro gli allevamenti intensivi, i quali, oltre a consumare enormi quantità di suolo, richiedono un utilizzo elevatissimo di risorse primarie quali acqua e foraggi.

L’IPCC ha inoltre segnalato come nel prossimo futuro, se non riusciremo a contrastare il riscaldamento globale, desertificazione e fenomeni climatici estremi faranno aumentare esponenzialmente il numero dei cosiddetti migranti climatici. L’accesso a risorse fondamentali per la vita (in primis l’acqua) sarà sempre più al centro di tensioni tra Stati come già avviene, ad esempio, tra Egitto e Sudan per il controllo del Nilo, o tra India e Cina per gli importantissimi corsi d’acqua che nascono nell’Himalaya.

Il fil rouge dello studio, insomma, è come la questione climatica non vada considerata unicamente una minaccia alla biodiversità ma anche e soprattutto una minaccia all’umanità, alimentando tensioni geopolitiche internazionali e minando la capacità stessa di produrre il cibo necessario a sfamare una popolazione mondiale in continua crescita.