L’estate del 2019 verrà tristemente ricordata per i devastanti incendi che hanno riempito le cronache di tutto il mondo. Ampio risalto è stato dato inizialmente alle vaste conflagrazioni che hanno riguardato la regione della Siberia, in Russia, mentre, in un secondo momento, l’attenzione mondiale è stata catturata dal tragico rogo dell’Amazzonia. Questi eventi, la cui portata non è meramente endemica, avranno ripercussioni sull’intero pianeta, evidenziando l’importanza della tutela delle “foreste primarie” nella lotta al riscaldamento globale.
Sia gli accordi di Parigi siglati nel 2015, sia il report annuale dell’IPCC (International Panel on Climate Change) hanno sottolineato come l’obiettivo di diminuire le emissioni di anidride carbonica, al fine di contenere il riscaldamento globale entro i 2° rispetto all’era preindustriale, non possa essere raggiunto senza la salvaguardia (ed il rimboschimento) dei polmoni verdi del pianeta.
Questa conclusione è di tutta evidenza. Attraverso la fotosintesi, infatti, le piante assorbono CO2 e la immagazzinano al loro interno: tale processo fa sì che una parte rilevante del loro peso sia costituita da carbonio. Secondo uno studio condotto dalla FAO le foreste planetarie assorbono oltre un trilione di tonnellate di carbonio, pari a quasi il doppio di quello presente nell’atmosfera. Di contro, tutto il carbonio “catturato” dalla pianta viene nuovamente liberato in atmosfera se questa brucia. Il danno è dunque doppio: non solo viene immessa CO2, ma si perde anche un ottimo magazzino naturale.
Ecco perché gli incendi in Amazzonia (cresciuti del 145% rispetto allo stesso periodo del 2018) rappresentano una catastrofe planetaria, visto che le foreste tropicali primarie sono quelle che presentano una maggior capacità di immagazzinamento del carbonio. La distruzione del polmone verde del pianeta ha principalmente tre responsabili: allevamento, agricoltura ed industria mineraria.
L’allevamento e tutto il suo indotto rappresentano una delle principali voci delle emissioni di CO2 nell’atmosfera e, in particolare in Amazzonia, il problema sta diventando sempre più grave. La foresta viene infatti disboscata principalmente per aumentare il terreno coltivabile a soia (che rappresenta il principale formaggio usato negli allevamenti) e quello da destinare all’allevamento. Un impatto non indifferente nella prosecuzione del disboscamento potrebbe giocarlo anche il recente accordo stipulato tra UE e Mercosur (in attesa di revisione tra i due contraenti e di successiva ratifica da parte di tutti gli Stati membri) che consentirà ai produttori sudamericani di far entrare maggiori quantità di prodotti agricoli (e non) nel territorio comunitario.
Sono recentemente aumentate, a tal proposito, le voci contrarie alla ratifica, prima fra tutte quella del presidente francese Macron, secondo il quale senza un impegno del presidente Bolsonaro a rispettare gli accordi di Parigi il trattato non potrà essere siglato. Il nodo gordiano è costituito proprio dal disboscamento dell’Amazzonia. L’Italia, dal canto suo, pare essere meno sensibile all’origine della soia importata dal Brasile, Paese che rappresenta per la penisola il principale fornitore, coprendo circa il 40% delle nostre importazioni, delle quali poco meno della metà parte direttamente dai porti sul Rio delle Amazzoni.
L’importanza della tutela dei polmoni verdi del pianeta e del loro rimboschimento è stata inoltre evidenziata da un recente studio pubblicato su “Science” a cura dell’Istituto svizzero di tecnologia di Zurigo. Tale ricerca ha calcolato il numero di alberi che potrebbe sostenere la Terra senza incidere sulle attività antropiche, giungendo alla conclusione che al mondo ci sono 0,9 miliardi di ettari che potrebbero essere ricoperti di foreste. Una simile distesa di verde, una volta cresciuta, sarebbe in grado di assorbire ben 205 gigatonnellate di anidride carbonica. Questa monumentale operazione richiederebbe, però, tempi e costi decisamente alti (circa 70 anni per far arrivare a crescita le foreste e circa 300 miliardi di dollari di costo). Essa rappresenta tuttavia una soluzione coerente con il patto di Parigi, da prendere dunque in seria considerazione.