Minibot. Le ragioni del “no”

Il 28 maggio 2019, la Camera dei Deputati ha approvato la mozione parlamentare 1/00013, che impegna il governo a sbloccare il pagamento dei debiti della Pubblica amministrazione verso imprese e professionisti attraverso la“possibilità di realizzare iniziative per […] l’ampliamento delle fattispecie ammesse alla compensazione tra crediti e debiti della pubblica amministrazione […] anche attraverso strumenti quali titoli di Stato di piccolo taglio”. Proprio questi titoli di Stato di piccolo taglio rientrano nell’alveo dei cosiddetti “Minibot”, che si trovano in queste settimane al centro del dibattito politico ed economico a livello nazionale.

Prima di approfondire l’argomento è necessario affrontare una doverosa premessa: una mozione parlamentare è un semplice strumento di indirizzo politico attraverso il quale le Camere (in questo caso la Camera dei Deputati) forniscono al governo un indirizzo sul comportamento da tenere riguardo ad una determinata questione. Il tutto si concretizza in un atto politicamente rilevante, ma che non comporta alcun vincolo per il governo, il quale può discostarsene senza alcun obbligo di motivazione salvo naturalmente assumersene la responsabilità politica.

Chiarito ciò è semplice comprendere come, a livello pratico, questi Minibot non abbiano più possibilità di entrare in vigore rispetto, ad esempio, a sei mesi fa, ma risulta particolarmente interessante analizzare l’eventuale disciplina prospettata a livello legislativo. Per fare ciò non si può prescindere da un confronto con il “fratello maggiore”: il Buono Ordinario del Tesoro (BOT).

I BOT sono titoli del debito pubblico italiano a breve termine (con scadenza a tre, sei o dodici mesi), che rappresentano dei prestiti concessi allo Stato che si impegna a rimborsarlo a scadenza ed il cui valore minimo è pari a 1.000 €. Si differenziano dai più noti Buoni del Tesoro Poliennali (o BTP, quelli su cui si calcola il celebre spread) per la più lunga scadenza di questi ultimi che può variare da tre a cinquanta anni.

Come è facile intuire dalla stessa denominazione, all’interno di questo quadro i Minibot si andrebbero ad inserire un gradino sotto ai BOT, almeno per quanto riguarda il valore nominale, mentre la vera criticità sarebbe rappresentata dalla scadenza degli stessi titoli. Infatti, per riassumerne le caratteristiche, ci troveremmo di fronte ad un titolo di Stato al portatore che non matura alcun’interesse, di taglio compreso tra i 5 € ed i 100 €, senza alcuna scadenza ed a distribuzione cartacea. Secondo l’ideatore Claudio Borghi, i Minibot verrebbero utilizzati per pagare i debiti della PA verso le imprese creditrici entro un massimale di 25.000 €, e potrebbero essere successivamente usati per pagare tasse o altri beni e servizi legati allo Stato.

I sostenitori del progetto, oltre allo scopo più immediato di saldare in tempi rapidi i debiti contratti dalla Pubblica Amministrazione, prevedono una successiva spinta alla crescita economica del Paese, a causa di bilanci più liquidi delle aziende che vantano crediti nei confronti dello Stato, e di conseguenza un maggiore gettito fiscale.

Secondo gli scettici, invece, la proposta non sarebbe in grado di ricevere il parere positivo della Banca Centrale Europea (alla quale devono essere preventivamente sottoposte le norme riguardanti l’introduzione di strumenti monetari o simili), né tantomeno la firma del Presidente della Repubblica a causa delle numerose violazioni dei trattati europei. Infatti, a causa della mancata dematerializzazione dei titoli e alla mancanza di interessi corrisposti dallo Stato, sarebbero potenzialmente in grado di sostituirsi alle banconote di euro circolanti in Italia, le uniche autorizzate ad avere corso legale ex art. 128 TFUE.

A causa della mancanza di una vera e propria bozza legislativa, al momento in cui si scrive è decisamente più articolata la dottrina contraria al progetto dei Minibot, e vale sicuramente la pena approfondirla in attesa di ulteriori dettagli attesi dalla attuale maggioranza parlamentare.

Si parte sostanzialmente da un principio: i debiti commerciali che contrae lo Stato non sono conteggiati nel computo del debito pubblico, in quanto si presume siano compensabili con i crediti che vengono iscritti all’attivo, ossia le tasse. Ciò che invece accadrebbe saldando i debiti attraverso questi titoli di piccolo taglio, sarebbe un conteggio nel passivo del bilancio statale di un importo pari ai Minibot emessi, e pertanto un rispettivo incremento del debito pubblico operando un cosiddetto debt swap.

Ora, volendo forzosamente escludere che il progetto alla base dei Minibot sia quello di introdurre una moneta parallela idonea a creare le basi per un’uscita dell’Italia dall’euro, anche l’utilizzo degli stessi quali strumenti atti a saldare i debiti della P.A., attraverso la possibilità del successivo pagamento delle imposte, presta il fianco a talune critiche. Difatti sarà molto probabile che nel momento in cui un’impresa detentrice decidesse di affacciarsi sul mercato con l’intenzione di monetizzare il valore dei Minibot cedendolo alla stregua di un normale credito (il cosiddetto mercato secondario, tipico di qualunque forma di titolo immesso sul mercato), si troverà di fronte ad offerte caratterizzate da un forte tasso di sconto rispetto al valore a cui sono stati emessi; sconto tanto più alto quanto più incerta sarà la fiducia che i mercati mostreranno verso questo strumento.

Così facendo i Minibot potrebbero gravare sulle imprese fornitrici della PA, senza contare che, al momento, sui crediti nei confronti dell’apparato statale maturano interessi di mora che poi lo Stato dovrà saldare, mentre con questo strumento tale meccanismo verrebbe interrotto corrispondendo titoli illiquidi alle imprese che dovrebbero poi, nel caso volessero monetizzare come precedentemente rappresentato, farseli scontare da banche o intermediari finanziari. In sintesi, secondo le principali posizioni critiche fino ad ora esposte nei confronti dei Minibot, l’operazione finirà con il favorire le banche ed i grandi investitori, che acquisteranno a forte sconto crediti fiscali da chi è costretto a venderli.

In conclusione, quello dei debiti inevasi della PA nei confronti delle imprese private è certamente un problema reale, seppure in calo dagli 82 miliardi di euro del 2011 ai 53 miliardi del 2018, ma che deriva da inefficienze strutturali del nostro sistema amministrativo e che, secondo le posizioni più intransigenti, non può certamente essere risolto attraverso la predisposizione di trucchi monetari. Meglio continuare con le formule più tradizionali, allora, come le anticipazioni di liquidità agli enti locali che sono peraltro i titolari di gran parte del debito commerciale, in attesa di analizzare un ipotetico disegno di legge che affronterà, e si spera risolverà, le criticità evidenziate.

Roberto Santini – Simone Zerunian