Ex Ilva, cosa nascondono le mosse di ArcelorMittal?

Pacta sunt servanda: un brocardo che sintetizza il principio giuridico fondamentale alla base di qualsiasi relazione intersoggettiva, secondo il quale gli accordi presi devono essere rispettati. Vi sono ovviamente eccezioni e deroghe che possono portare a modifiche ed alla caducazione dell’accordo ma la crisi innescata dal colosso ArcelorMittal nell’ultimo mese sembra nascondere ben altro.

Il primo novembre 2018 l’acciaieria ex Ilva venne acquisita dal colosso della siderurgia mondiale franco-indiano e, allora, le parole dell’Amministratore Delegato del gruppo, Lakshmi Mittal, tutto facevano presagire fuorché le tensioni dell’ultimo mese. Il miliardario indiano aveva infatti commentato in questo modo l’acquisizione: «vantiamo una lunga storia di rilancio di asset poco efficienti. Sono fiducioso nel fatto che riusciremo a ripristinare le prestazioni operative, finanziarie e ambientali di Ilva e che, nel farlo, creeremo valore per la nostra società, gli stakeholder di Ilva e l’economia italiana.»

L’ArcelorMittal acquistò l’ex Ilva con un’offerta di 1,8 miliardi ma ciò che fece prevalere la proposta del colosso franco-indiano furono il piano di investimenti e le garanzie sul piano occupazionale. L’ArcelorMittal si impegnava infatti ad investire, in un periodo di 7 anni, circa 2,4 miliardi di euro, dei quali 1,3 nel piano industriale ed 1,1 sul piano ambientale. Il colosso franco-indiano, inoltre, avrebbe dovuto assumere 10.700 lavoratori dell’ex Ilva.

La decisione sul recesso dall’acquisto ruota, nella spiegazione divulgata dalla società, attorno a due punti fondamentali: la rimozione dello scudo penale da parte del governo e le problematiche giurisdizionali legate all’Altoforno 2.

Prima di essere cancellato, lo scudo penale era contenuto nell’articolo 2, comma 6 del decreto legge n. 1 del 2015, norma che escludeva la responsabilità (penale ed amministrativa) del gestore per gli eventuali effetti collaterali della produzione intervenuti nel periodo di adeguamento al piano ambientale. Il compromesso era chiaro: dato che l’ammodernamento e la riqualificazione dell’impianto nel rispetto delle norme ambientali avrebbe richiesto tempo, durante questo periodo la penale responsabilità dei vertici apicali dello stabilimento veniva esclusa. Per quanto riguarda l’alto forno numero 2, invece, il problema deriva dalle prescrizioni sul rispetto della salute e la tutela dei lavoratori impartite dal Tribunale penale di Taranto che, se non rispettate entro il 13 dicembre, comporteranno lo spegnimento.

I vertici di ArcelorMittal hanno motivato la volontà di recedere dal contratto sulla base del fatto che lo spegnimento dell’altoforno e la rimozione dello scudo penale renderebbero impossibile per l’azienda il rispetto del piano industriale ed ambientale. Giustificazioni che, però, già dall’embrionale fase delle trattative con il governo, appaiono solo dei pretesti. Al lato delle problematiche relative all’altoforno 2 ed all’abolizione dello scudo penale, il fulcro delle trattative si è da subito incentrato sul numero dei possibili esuberi, che ArcelorMittal valuta intorno ai 5.000 (quasi la metà della forza lavoro degli stabilimenti di Taranto).

Che la mossa del colosso indiano presenti dei chiaroscuri è quanto ha spinto le procure di Milano e Taranto ad aprire un fascicolo, indicando come ipotesi di reato aggiottaggio informativo e distrazione dei beni dal fallimento.

Con riferimento alle false informazioni, l’ipotesi della Procura di Milano è che ArcelorMittal abbia pilotato la crisi della ex Ilva facendole perdere valore, alla luce della circostanza che le perdite dell’acciaieria sono raddoppiate in un anno. A giovarsene, come dicono i Commissari straordinari nel ricorso, potrebbero essere stati gli stessi franco-indiani, i quali avrebbero “eliminato” un concorrente dalla piazza. Un’altra ipotesi che potrebbe spiegare il “depauperamento” è che ArcelorMittal non abbia più interesse a tenere la ex Ilva, resasi conto delle difficoltà presenti nel mercato italiano, come il costo del lavoro e le resistenze dei sindacati.

La distrazione dei beni, prevista dall’art. 232 della legge fallimentare, invece, punisce «chiunque dopo la dichiarazione di fallimento, fuori dei casi di concorso in bancarotta o di favoreggiamento, sottrae, distrae, ricetta ovvero in pubbliche o private dichiarazioni dissimula beni del fallito» .

Nello specifico, si sta indagando sulla gestione del magazzino: confrontando i prodotti contenuti al momento del passaggio di proprietà nelle mani di ArcelorMittal con quelli ad oggi presenti, gli inquirenti puntano a verificare se dirigenti e manager del gruppo, con le loro condotte, abbiano sottratto e distratto beni e risorse dall’Ilva fallita, dopo che hanno iniziato a gestirla con il contratto d’affitto.

Insomma, la mossa di ArcelorMittal sembra essere non solo una spregiudicata operazione volta ad eliminare un possibile competitor (o comunque a svincolarsi da un accordo valutato non più conveniente) ma, in attesa dell’esito delle indagini, potrebbe addirittura configurare una condotta criminale.