Si è svolto lo scorso 16 luglio a Helsinki il faccia a faccia tra il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ed il suo omologo della Federazione Russa Vladimir Putin. Incontro particolarmente atteso, avvenuto in un contesto internazionale dai risvolti profondamente differenti per i due Paesi.
In Russia si era appena concluso il mondiale di calcio, la cui ottima riuscita ha messo d’accordo tutti gli osservatori internazionali. Diverso il discorso per gli USA, per i quali l’attenzione internazionale verteva su questioni piú complesse del calcio giocato. Da un lato, Washington usciva da un summit della NATO in cui si ripresentava lo scontro tra USA e governi alleati circa la richiesta americana di aumento della spesa militare e, più nello specifico, si rimaterializzava lo scontro tra Washington e Berlino sulle questioni commerciali.
Dall’altro, durante la permanenza in Gran Bretagna, Trump ha etichettato come nemici degli USA, l’Unione Europea (in particolare), la Cina (rea di non rispettare le norme del WTO) e, in misura minore, la Russia. Tuttavia, la questione che piú ha interessato e premuto gli osservatori statunitensi (e non) è stato il Russiagate, che vede coinvolta l’amministrazione Trump e che rischia di essere elemento per il quale si chieda, in futuro, l’impeachment dell’inquilino della Casa Bianca.
A riguardo, la scorsa settimana le autorità statunitensi hanno incriminato 12 ufficiali dell’intelligence militare russa per presunte interferenze nelle elezioni presidenziali del 2016. Non è dunque un caso che durante la conferenza stampa congiunta il Russiagate sia stato l’argomento più trattato dai media accreditati al palazzo presidenziale di Helsinki. Sia Trump che Putin hanno smentito qualsiasi tipo di interferenza di Mosca nelle scorse elezioni presidenziali. Difficile sarebbe stato pensare ad una presa di posizione dura riguardo il Russian meddling da parte della Casa Bianca, soprattutto se l’obiettivo trumpiano è quello di ricucire le relazioni con Mosca, il cui livello è stato da lui definito come “il peggiore degli ultimi anni”.
Il summit di Helsinki rivela molto dell’approccio di Donald Trump nei rapporti internazionali, incentrato sul rafforzamento della cooperazione bilaterale sui principali dossier, a scapito del multilateralismo. In effetti, l’esito dell’incontro con Putin su alcuni temi caldi, tra i quali spiccano i rapporti con l’Iran e la soluzione del conflitto siriano, sembrano seguire questa direzione.
Proprio l’uscita degli USA dall’accordo sul nucleare con l’Iran ha voluto mettere in discussione il lavoro svolto dall’amministrazione Obama e dalla comunità internazionale, un lavoro portato avanti multilateralmente. Durante la conferenza congiunta ad Helsinki, il presidente americano ha affermato che si è parlato “dell’importanza di fare pressione sull’Iran per mettere fine al suo programma nucleare e alla sua campagna di odio nel Medio Oriente”. In questo senso, i due Paesi che possiedono gli armamenti nucleari più grandi del mondo dovrebbero arginare la proliferazione del nucleare nella Repubblica Islamica, scavalcando e sovrapponendo l’azione della comunità internazionale.
Stesso discorso, ma con elementi e dinamiche differenti, il conflitto in Siria. Infatti, il presidente Putin ha affermato a riguardo che “Russia e Stati Uniti possono prendere su di sé la leadership in questa situazione e organizzare una cooperazione per superare la crisi, dal punto di vista umanitario, per far tornare i rifugiati alle loro case”.
Ciò nonostante, l’obiettivo dell’amministrazione Trump di un avvicinamento al Cremlino non è solo quello di far prevalere il bilateralismo (o l’unilateralismo statunitense) sul multilateralismo all’interno delle organizzazioni internazionali. Esso rappresenta anche la volontà di arginare le relazioni sino-russe, le quali potrebbero, nel medio periodo, costituire una sfida strategica per Washington in Eurasia.
In quest’ottica vanno lette le iniziative protezionistiche in materia commerciale. L’aumento dei dazi, le critiche al WTO (che non faciliterebbe gli affari statunitensi) e l’annullamento del TTIP riflettono la volontá di prediligere la produzione interna e di indebolire gli accordi commerciali internazionali. A riguardo, ad Helsinki sappiamo che la Casa Bianca e il Cremlino hanno affrontato il tema del commercio, ma non si conoscono i dettagli della discussione.
In questo senso, risulta difficile pensare ad una cooperazione: oggetto del contendere è l’Unione Europea e la sua strutturale dipendenza dal gas russo. Trump ha infatti chiesto che l’Europa cambi idea sul Nordstream-2, voluto da tedeschi e russi per aumentare le quantità di gas importate dall’Europa settentrionale aggirando le russofobe repubbliche baltiche. Il raddoppio del Nordstream è un’idea di Putin ed è importante non solo da una prospettiva economica; secondo i detrattori, infatti, dietro questo progetto vi sarebbe l’obiettivo di aumentare l’influenza russa in Europa.
Nonostante la contrarietà di una parte considerevole dello Stato profondo americano, il contesto internazionale porta l’amministrazione Trump ad avvicinarsi al rivale storico per cooperare in alcuni campi, pur continuando a competere in altri. L’Unione Europea, nel mentre, si trova al centro della competizione energetica tra Washington e Mosca, le cui pressioni potrebbero indebolire il progetto integrazionista, in quanto è molto più semplice, sia per la Casa Bianca che per il Cremlino, trattare bilateralmente con singoli Stati che con l’Unione intera.
Ma al di là della competizione energetica, dal punto di vista commerciale l’UE sta già rispondendo alla politica protezionistica di Trump con l’accordo firmato con il Giappone, il più grande mai negoziato dall’UE, il quale creerà una zona commerciale aperta che comprende oltre 600 milioni di persone. Bruxelles vuole dunque inserirsi in Asia e nell’economia della tigre asiatica, che è stata sempre prerogativa statunitense.
Simone Careddu