Sono settimane di lavoro incessante per i funzionari della Farnesina, impegnati nell’organizzazione della prossima Conferenza internazionale sulla Libia, che si terrà a Palermo il 12 ed il 13 novembre, rappresentando un tassello cruciale della strategia italiana nel Paese arabo.
L’evento, probabilmente il più atteso dell’anno per la nostra diplomazia, permetterà finalmente di capire il peso reale di cui l’Italia potrà disporre nel teatro libico, facendo inoltre da contraltare all’iniziativa francese del maggio scorso, quando Parigi aveva ospitato un incontro internazionale che aveva visto la partecipazione di Fayez al Sarraj, il primo ministro libico riconosciuto dalle Nazioni Unite, del generale Khalifa Haftar, padrone della Cirenaica sostenuto da Francia, Russia ed Egitto, di Aguila Salah, il presidente del Parlamento di Tobruk, e del capo dei Fratelli Musulmani in Libia nonché presidente dell’Alto Consiglio di Stato, Khaled al Mishri.
Il summit francese, nonostante la presenza di una delegazione italiana (insieme a quelle di altri Stati, tutti più o meno coinvolti nel processo di pace libico), aveva causato profondi malumori nel nostro Paese, a causa sia del fondato timore che Parigi sgomitasse per controllare a proprio favore l’evoluzione della crisi sia per le modalità con cui tale operazione stava prendendo forma. La volontà francese di far indire le elezioni politiche in Libia per il prossimo 10 dicembre, infatti, non ha fatto altro che esacerbare i contrasti tra le diverse fazioni, andandosi a scontrare con la realtà sul campo e contribuendo ad un’ulteriore spirale di violenza in un’area già drammaticamente tormentata.
Le preoccupazioni circa una possibile escalation della crisi sono state confermate tra la fine di agosto e l’inizio di settembre dall’attacco contro Tripoli, quando la Settima Brigata di Tarhuna (località a Sud-Est della capitale) ha cinto d’assedio la periferia meridionale della città, con i combattimenti che hanno causato oltre un centinaio di morti e migliaia di sfollati. Il ritiro degli attaccanti è avvenuto soltanto il 3 settembre, mentre Tripoli aspettava l’imminente arrivo di rinforzi da Misurata. Un ruolo determinante nell’ottenere il prezioso cessate il fuoco è stato ricoperto dalla mediazione ONU, ricevendo il plauso di Francia, Italia, Regno Unito e Stati Uniti attraverso una nota congiunta. Prima di un tale esito, sembrava che la strategia italiana stesse per evaporare insieme al fragile protetto di Roma al Sarraj, prefigurando per la diplomazia italiana una sconfitta su tutta la linea.
Nonostante il rischio attraversato, il passare delle settimane fa ben sperare, soprattutto alla luce di alcuni piccoli e grandi risultati portati a casa in questi mesi dalla nostra politica estera. A cominciare dalla scelta di Stati Uniti, Regno Unito e Russia di bocciare al Consiglio di Sicurezza dell’ONU la proposta francese di far svolgere le elezioni il 10 dicembre, isolando in questo modo Parigi. Anche Il Cairo, tra i principali sponsor di Haftar, ha iniziato a guardare il protagonismo transalpino con sospetto, mostrandosi contrario alla road map francese e consolidando lo storico rapporto con l’Italia, rafforzato dalle recenti visite in Egitto di Matteo Salvini, Enzo Moavero Milanesi, Luigi Di Maio e Roberto Fico.
Il placet determinante alla posizione italiana, tuttavia, è arrivato da Donald Trump, che in diverse occasioni ha espresso la propria vicinanza all’Italia su numerosi dossier. Emblematiche in tal senso le affermazioni fatte dopo il vertice bilaterale a Washington lo scorso luglio: «Riconosciamo il ruolo di leadership dell’Italia nell’Africa del Nord». In attesa di vedere quali saranno concretamente i risultati di una tale sintonia, è evidente che un simile capitale geopolitico vada sapientemente utilizzato per aumentare la nostra incisività sulla situazione libica.
Al fine di instradare il Paese verso una pace duratura, Roma si è mossa anche in sede europea, riuscendo a far varare a metà settembre un piano d’investimenti per 50 milioni di euro, grazie ad un accordo tra la Commissione Europea e l’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (AICS), con quest’ultima che gestirà direttamente 22 milioni. L’iniziativa è pensata per aiutare le diverse municipalità, in linea con la strategia italiana di questi anni, volta a decrittare il complicato mosaico libico.
Per concludere questa panoramica, occorre segnalare l’avvicinamento in quest’area di crisi tra Roma e Londra: della massima importanza è l’alleanza petrolifera tra ENI e British Petroleum, raggiunta nella prima metà di ottobre con la firma, insieme alla compagnia statale libica National Oil Corporation (NOC), di una lettera d’intenti per affidare ad ENI una quota del 42,5% nell’Exploration and Production Sharing Agreement della multinazionale britannica in Libia. La mossa, oltre che dagli ovvi interessi economici, sembra dettata anche dalla volontà di frenare l’espansionismo francese nella regione. Il Regno Unito, alle prese con la Brexit, potrebbe infatti preferire l’Italia quale controbilanciamento della strategia africana di Parigi.
Le prossime settimane ci sveleranno dunque in quali condizioni si giungerà all’appuntamento di Palermo, per la cui riuscita risulterà particolarmente importante la presenza dei “pezzi grossi” della politica internazionale rispetto alle “seconde linee”, per quanto prestigiose. Una presenza di Trump, ad esempio, costituirebbe senza dubbio un elemento di forza del summit, anche perché potrebbe richiamare a sua volta la presenza di Vladimir Putin, il quale, dopo l’intervento russo in Siria, risulta un imprescindibile ago della bilancia anche nel conflitto libico. In Sicilia, cuore del Mediterraneo, questo novembre potrebbe essere scritta una pagina di storia auspicata da molto tempo, contribuendo a pacificare uno strategico crocevia tra Africa ed Europa.
Marco Valerio Solia