Lo svolgersi in queste ore delle elezioni politiche israeliane ha riacceso i riflettori internazionali sullo Stato ebraico, impegnato in un cruciale processo di ridefinizione identitaria ed alle prese con le diverse crisi che affliggono la regione.
Le urne vedono sfidarsi il già quattro volte presidente Benjamin Netanyahu ed il generale a riposo Benny Gantz, principale competitor del premier in carica. Gantz, militare di lungo corso e Capo di Stato Maggiore dell’esercito dal 2011 al 2015, è il leader del nuovo partito centrista “Blu e Bianco”, compagine formata da Israel Resilience Party (fondata dallo stesso Gantz) e dai laici di Yesh Atid (“C’è un futuro”), quarto partito israeliano alle politiche del 2015.
Netanyahu, che ha collezionato durante la longeva carriera politica ben 13 anni di premierato (dal 1996 al 1999 e dal 2009 ad oggi), punta alla riconferma per un quinto mandato, che lo consacrerebbe come il presidente più vincente della storia d’Israele, superando persino David Ben Gurion, fondatore e primo presidente del Consiglio dello Stato ebraico.
Il leader del Likud ha indetto nuove elezioni dopo che lo scorso novembre si era registrata l’importante defezione del ministro della Difesa Avigdor Lieberman, dimessosi perché contrario al cessate il fuoco negoziato con Hamas. Il voto si sarebbe dovuto inizialmente tenere il prossimo autunno ma la risicata maggioranza parlamentare ha indotto Netanyahu ad anticipare il ricorso alle urne, con la speranza di riconfermarsi al potere.
In caso di vittoria, il presidente in carica ha annunciato di voler procedere con l’annessione degli insediamenti israeliani in Cisgiordania, mossa dalle conseguenze potenzialmente esplosive per la stabilità regionale. Tali nuclei urbani, insediati nei territori palestinesi dopo la guerra dei Sei Giorni, vedono poche centinaia di migliaia di coloni vivere in aree abitate da oltre 2,5 milioni di palestinesi. Negli ultimi anni l’espansione israeliana non ha accennato a diminuire, con circa 600 mila cittadini dello Stato ebraico che vivono oltre il confine (riconosciuto internazionalmente) pre-1967. Situazione, questa, che ha provocato scontri anche in questi giorni, causando purtroppo diversi morti.

È dunque facile pronosticare l’aumento delle frizioni in un’area già abbastanza martoriata dalle tensioni degli ultimi anni, che non hanno coinvolto ovviamente la sola Cisgiordania. Non è passato molto tempo infatti dai numerosi attacchi palestinesi ribattezzati “Intifada dei coltelli”. Con decine di morti israeliani (a cui sono seguite 200 uccisioni di palestinesi ad opera delle forze di sicurezza), la stagione aperta nell’ottobre 2015, e trascinatasi anche in tempi più recenti, ha evidenziato l’ennesima escalation del conflitto israelo-palestinese, che nonostante la rimozione dall’agenda internazionale (o forse proprio per questo) è tutt’altro che in via di risoluzione.
Lo scorso anno si sono registrati alcuni passaggi chiave di questa spirale, a cominciare dal trasferimento nel maggio dell’ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme, evento che ha sancito un nuovo corso nelle relazioni tra Stati Uniti e Israele dopo l’allontanamento dell’era Obama. Il legame è stato ulteriormente rafforzato dall’archiviazione, anch’essa voluta da Donald Trump, dell’accordo 5+1 con l’Iran, che ha permesso allo Stato ebraico di tirare un sospiro di sollievo, esorcizzando un pieno inserimento di Teheran nella comunità internazionale.
Altro passo storico è stato compiuto nel luglio, quando la Knesset ha votato la legge che definisce Israele come “Stato del popolo ebraico”, rimarcando l’identità etno-culturale quale perno della società israeliana e scatenando numerose polemiche. In realtà il dibattito sulla discontinuità giuridica o meno di questo provvedimento rispetto alla tradizione israeliana è tutt’altro che chiuso, evidenziando anche sensibilità molto diverse tra la diaspora ebraica e gli abitanti del piccolo Stato.
Ad ogni modo, è chiaro come quella di oggi rappresenti una votazione determinante per gli sviluppi futuri della regione. La speranza di una vicina stabilizzazione del Medio Oriente dopo la sconfitta dell’Isis in Siria ed Iraq rischia di essere offuscata da un aumento delle violenze in Cisgiordania e Gaza, scenario che dovrebbe far tornare il conflitto arabo-israeliano in cima alle preoccupazioni degli attori internazionali.
Marco Valerio Solia