Secondo quanto si apprende da diverse testimonianze, l’Italia avrebbe ottime probabilità di condurre la missione NATO in Iraq, succedendo all’attuale leadership danese. La candidatura è pervenuta ufficialmente attraverso vari canali diplomatici e sembra aver incassato il favore di altri Paesi membri. La notizia traspare a pochi giorni dall’annuncio da parte del Segretario Generale della NATO Jens Stoltenberg riguardo la decisione di incrementare la presenza di uomini sul territorio (dalle attuali 500 unità a 4.000) su richiesta delle autorità irachene.
Il contingente, quasi esclusivamente composto da europei e canadesi, vedrà negli italiani la componente più numerosa, elemento significativo che avvalora la tesi di una prossima guida tricolore della missione. L’Italia è già presente sul territorio, come in altri Paesi mediorientali (è storicamente a capo della Missione UNIFIL in Libano), con attività di addestramento e supporto alle forze armate locali sia a Baghdad che ad Erbil, capitale del Kurdistan iracheno.
È proprio nell’area limitrofa al confine con la Siria, dove continuano ad operare gruppi jihadisti legati allo Stato Islamico (e non solo), che si concentrano le attività della coalizione anti-Isis che ha visto finora impiegati, tra gli altri, circa 1.100 soldati italiani. Con il rafforzamento della missione NATO, quest’ultima assumerà alcune funzioni sinora ricoperte della coalizione.
Negli scorsi 5 anni oltre 45.000 Peshmerga sono stati addestrati e l’impegno dei nostri militari è stato riconosciuto unanimemente. La conferma di Guerini alla Difesa è un ulteriore segnale della centralità del dossier iracheno nell’agenda politica del governo Draghi: durante l’ultimo anno il ministro ha effettuato quattro visite in Iraq, ribadendo più volte l’importanza della presenza nell’area e la necessità di «estendere le attività addestrative, di consulenza ed esercitative, coerentemente con le condizioni di sicurezza».
L’implementazione della missione ha molteplici obiettivi, alcuni ufficiali ed altri ufficiosi. Se da un lato, infatti, questa mossa viene annoverata come «sostegno alle forze irachene nella lotta al terrorismo», non si può non considerarla anche un tentativo di arginare l’influenza iraniana. In un momento di graduale ritiro delle truppe statunitensi, invise da sempre a una buona parte della popolazione locale e ritenute colpevoli dal governo di aver ripetutamente violato l’integrità territoriale irachena (l’uccisione del generale iraniano Soleimani a Baghdad ne è un esempio eclatante), il rischio di un ulteriore aumento di pressione da parte di Teheran è concreto.
La “sostituzione” di truppe americane con quelle di altri Paesi meno esposti alle contese politiche regionali appare quindi opportuna, oltre ad essere in linea con il programma (seppur rallentato rispetto alla precedente amministrazione) di un graduale disimpegno militare in Medio Oriente. Non bisogna tuttavia intendere il disimpegno come disinteresse: con il blitz aereo in Siria del 26 febbraio (il primo dell’era Biden) contro milizie filoiraniane gli Stati Uniti hanno infatti ribadito che gli attacchi contro i propri connazionali o contro la coalizione non resteranno impuniti.
Il maggiore ruolo della missione NATO deve essere dunque letto come un cambio di strategia, volto ad un coinvolgimento maggiore di uomini da parte degli altri membri dell’alleanza. Gli Stati Uniti contribuiranno principalmente con la fornitura di aerei ed elicotteri militari e con il supporto di tecnologia hi-tech per la raccolta di informazioni.
L’Italia ha una grande occasione e una grande responsabilità davanti a sé. Se infatti dovesse esserle affidata la guida della missione in Iraq, si ritroverebbe al centro di una situazione incandescente e sarà fondamentale un accurato lavoro non solo strategico-militare, ma anche politico-diplomatico.
Se da un lato l’aumento di attacchi ai danni delle forze occidentali richiederà risposte inflessibili e un impegno costante nel fronteggiare i gruppi jihadisti, dall’altro la nostra diplomazia dovrà essere in grado di disinnescare le tensioni latenti tra i governi coinvolti, evitando che, come accade in Siria, l’Iraq si trasformi in un nuovo terreno di scontro per procura.
Davide Garavoglia