Sul genocidio armeno Biden inaugura un nuovo approccio alla Turchia?

Le recenti dichiarazioni rilasciate dal presidente Biden in favore del riconoscimento del genocidio armeno hanno segnalato un netto cambio di passo nei rapporti tra il primo ed il secondo apparato militare della NATO. Come è noto, infatti, in occasione della giornata del ricordo del 24 aprile la Casa Bianca aveva toccato proprio uno dei tasti maggiormente dolenti per Ankara: quello dei massacri compiuti dai giovani turchi durante (e dopo) la Prima guerra mondiale. Washington ha così espressamente utilizzato la parola tabù: quel “genocidio” tradizionalmente contestato dalla Turchia in sede politica e storiografica.

Come inevitabile, le dichiarazioni del presidente USA sono state seguite dalle proteste della Repubblica di Turchia, sia attraverso il ministro degli Esteri Çavuşoglu (il quale ha convocato l’ambasciatore americano e rispedito al mittente le “lezioni di storia”), sia tramite il presidente della Repubblica Erdogan, che ha definito il genocidio armeno una «diffamazione» ai danni di Ankara. Proprio nella capitale turca si sono svolte manifestazioni di protesta di fronte all’ambasciata americana, mentre, in maniera del tutto speculare, le comunità armene sparse per il mondo celebravano lo storico passo operato dall’amministrazione USA.

A prescindere dal riconoscimento istituzionale delle sofferenze patite dal popolo armeno, quello che in questa sede si vuole sottolineare è quanto la presa di posizione di Biden si vada a inserire in una possibile rivisitazione delle relazioni bilaterali e, probabilmente, in un maggior coinvolgimento di Washington nell’area, dopo la relativa assenza degli ultimi anni. Archiviato l’abbraccio obamiano dell’Islam politico e, successivamente, il tentativo di parziale ritiro promesso da Trump, la nuova amministrazione sembra decisa a contrastare l’attivismo turco proprio quando questo appariva all’apice della sua potenza. Non è del resto un caso che ciò avvenga dopo la seconda guerra del Nagorno Karabakh, che ha visto lo scorso novembre l’Azerbaigian (con il determinante sostegno turco) sconfiggere le truppe armene e recuperare parte dei territori persi a inizio anni Novanta durante il primo conflitto.

In tal senso, forse, è possibile leggere lo sprezzante commento del presidente del Consiglio italiano nei confronti del leader turco, definito nientemeno che «dittatore» nel corso dell’ormai storica conferenza stampa dello scorso 9 aprile. L’esperienza internazionale di Draghi farebbe escludere l’ipotesi di una gaffe non voluta, essendo probabilmente intenzionato a lanciare un messaggio di vicinanza alla nuova amministrazione USA (le cui ritrosie su Erdogan erano già note) e di maggior prossimità in ambito euro-mediterraneo e levantino a quegli attori impegnati a contrastare l’espansionismo di Ankara, a cominciare da Francia ed Egitto.

Il rompicapo turco, tuttavia, non può essere letto in un’ottica binaria, presentando temi spinosi per la Casa Bianca a guida democratica. Il riferimento è ovviamente all’importanza della Turchia in funzione antirussa, nonché alla capacità anatolica di interferire sull’influenza tedesca in Europa, vista con insofferenza dagli apparati americani.

Il livello di tensione tra USA e Turchia è ad ogni modo confermato anche dalle rinnovate epurazioni militari condotte da Erdogan. Ad inizio aprile 10 ammiragli turchi in pensione, tra cui il celebre Cem Gürdeniz (ideatore della “Patria blu”, visione strategica volta a rendere la dimensione marittima il perno della nuova Turchia) erano stati arrestati per aver criticato “Canale Istanbul”, il progetto infrastrutturale pensato per aggirare il Bosforo. Appena ieri (26 aprile) un’operazione di polizia in grande stile ha portato all’arresto di circa 500 militari presumibilmente legati all’arcinemico Fethullah Gülen.

Segnali molto eloquenti, dunque, soprattutto ove si consideri che il tentato golpe del 2016 si era svolto, eufemisticamente, senza che i dem americani mostrassero segni di disperazione. Erdogan è avvisato.

Marco Valerio Solia