Il primo gennaio del nuovo anno sono entrate in vigore le norme contenute nella legge 9 gennaio 2019, n. 3, (c.d. “spazzacorrotti”) recanti la nuova disciplina della prescrizione dei reati. La riforma, fortemente voluta dal guardasigilli Alfonso Bonafede e dall’ala pentastellata della maggioranza giallo-verde, ha suscitato sin da subito un vespaio di polemiche.
Contro il novellato secondo comma dell’art. 159 del Codice penale, infatti, si è sollevato un coro pressoché unanime di critiche sfociate più volte nella proclamazione, da parte dell’Unione delle Camere Penali, dello sciopero dei penalisti, l’ultimo dei quali è previsto per il 28 gennaio.
Per meglio comprendere la questione, occorre premettere che la prescrizione dei reati trova un suo fondamento illuministico-liberale nel principio secondo cui il decorso di un significativo lasso di tempo affievolisce sia l’interesse dello Stato a punire una data violazione dell’ordine sociale, sia il bisogno di rieducazione dell’autore del reato, il quale, con il passare degli anni, potrebbe essere diventato una persona completamente diversa.
Per tale ragione, il Codice penale prevede che la prescrizione estingua il reato una volta decorso un tempo pari al massimo della pena stabilita dalla legge per quell’illecito e che tale termine possa essere aumentato, in presenza di atti interruttivi, fino ad un quarto (oppure della metà, per alcuni reati in materia di corruzione).
A tale regola fanno eccezione i delitti puniti con la pena dell’ergastolo, che sono imprescrittibili.
La riforma Bonafede, pur non stravolgendo le norme sopra richiamate, ha introdotto – con una tecnica legislativa stigmatizzata dalla dottrina maggioritaria – una sorta di termine finale del corso della prescrizione, oltre il quale il reato non potrà più estinguersi: la pronuncia della sentenza di primo grado, sia essa si condanna o di assoluzione.
In altre parole, prima di quella che autorevoli commentatori hanno definito una “bomba atomica sui processi”, un reato poteva essere dichiarato estinto con sentenza dal giudice di primo grado, se la prescrizione maturava nella fase delle indagini, oppure innanzi alla Corte d’Appello o in Cassazione, se tra i vari giudizi fosse nel frattempo spirato il termine previsto dalla legge.
Oggi, invece, le alternative si sono drasticamente ridotte: o la prescrizione maturerà nella fase delle indagini – e allora verrà dichiarata dal giudice di primo grado – oppure, una volta emessa una sentenza di condanna o di assoluzione – questa non potrà più essere rilevata nei giudizi di impugnazione.
Allo stato attuale la nuova disciplina rischia di trasformarsi in un pericoloso boomerang per coloro i quali si auspicavano una riduzione dei tempi della giustizia, nonché di tradire le aspettative dei promotori. Difatti, secondo le rilevazioni ministeriali, ad oggi sono pendenti presso le aule di giustizia 1.493.253 processi. Di questi, secondo le statistiche del Ministero della Giustizia del 2013, lo 0,4% si prescrivono in Cassazione, il 17% in Appello, il 22,1% tra Tribunale e GIP/GUP, l’1,5% innanzi al Giudice di Pace e il restante 58,6% è costituito da decreti del GIP di archiviazione per prescrizione.
Pertanto, in media, l’82,6% delle estinzioni del reato per intercorsa prescrizione si verifica nel lasso di tempo compreso tra il giorno della consumazione dell’illecito e la pronuncia della sentenza di primo grado. A conti fatti, dunque, la riforma Bonafede riguarda quel 17,4% dei processi che si prescrive in grado di appello o in Cassazione.
Ciò significa, in buona sostanza, che la riforma potrebbe avere un impatto minimo in termini di certezza della pena e, al contrario, sacrifici notevoli per quegli imputati che, pur essendo stati assolti in primo grado, rimarranno esposti sine die agli effetti stigmatizzanti del processo penale.
Non si può sottacere, tuttavia, che la riforma era animata da nobili intenti: troppe volte, invero, episodi che hanno scosso le coscienze si sono conclusi, dopo un notevole dispendio di tempo e risorse, in un nulla di fatto. Tra i casi che si citano più spesso, vi è quello della strage della stazione di Viareggio del 2009.
La soluzione a tali storture del sistema va però ricercata altrove. La precedente disciplina in materia di prescrizione, infatti, postulava, al fine di rendere il suo funzionamento coerente con i nobili intenti che la ispirano, la ragionevole durata dei processi: la riforma Bonafede rappresenta solo un modo, alquanto avventato, per aggirare il problema.
Il legislatore, infatti, anziché intervenire radicalmente su di un istituto fondamentale del diritto penale – attesa la sua funzione di baluardo contro l’irragionevole durata dei processi – ben avrebbe potuto introdurre norme ad hoc, come è stato fatto con la riforma Orlando del 2017, volte ad aumentare i termini di prescrizione di quei reati che destano maggiore allarme sociale.
In secondo luogo, è quanto mai necessario proseguire con il processo di depenalizzazione di numerose fattispecie di reato previste nella parte speciale del Codice penale ed introdurre, al loro posto, delle sanzioni amministrative, le quali, in molti casi, svolgono una funzione deterrente ancor più incisiva delle pene.
Luca Savoia