Andrea Capurso è il vincitore del prestigioso premio internazionale “Diederiks-Verschoor Award”, assegnatogli dall’Istituto Internazionale di Diritto Spaziale per il suo articolo di ricerca: “The Non-Appropriation Principle: A Roman Interpretation”. Si è laureato in Giurisprudenza all’Università di Roma Tre nel 2017. Ha conseguito un master in Diritto Aerospaziale all’Università di Leiden e attualmente lavora a Praga presso il dipartimento legale dell’Agenzia dell’Unione Europea responsabile dei sistemi di navigazione satellitare (GSA).
Dottor Capurso, esiste un Diritto internazionale spaziale?
Il Diritto spaziale nasce ancora prima del lancio, da parte dell’ex Unione Sovietica nel 1957, dello Sputnik-I, primo satellite artificiale a raggiungere lo spazio extra-atmosferico. Già negli anni Dieci del Novecento, con lo sviluppo dell’aviazione, vari giuristi si erano interrogati circa le potenzialità della “rivoluzione dell’aria”. A cavallo tra gli anni ’50 e gli anni ’60, si elaborarono anche le prime risoluzioni dell’ONU. Ma è a Londra, il 27 gennaio 1967, che si firmò il Trattato sulle norme per l’esplorazione e l’utilizzazione, da parte degli Stati, dello spazio extra-atmosferico, compresi la luna e gli altri corpi celesti, “la Magna Charta” del diritto spaziale. In piena Guerra fredda tra USA e URSS, questo Trattato rappresenta un compromesso tra le due potenze. Non sapendo ancora chi riuscirà a vincere la “corsa allo Spazio” (o meglio, “alla Luna”), si stabilirono una serie di principi giuridici volti a limitare le conseguenze di un’eventuale vittoria dell’uno o dell’altro contendente.
Tra questi si trova la fondamentale regola per cui lo Spazio, la Luna e gli altri corpi celesti, non possono essere appropriati da nessuno. La famosa bandiera americana piantata sulla Luna dall’astronauta Neil Armstrong nel 1969, ha rappresentato soltanto un atto simbolico, senza effetti giuridici. Lo spazio resta, dunque, un ambiente in cui l’appropriazione dei corpi celesti è vietata. Non vuol dire, però, che non esista la proprietà privata. Ad esempio un satellite lanciato da uno Stato rimarrà di sua proprietà. Ma lo Stato non potrà rivendicare la proprietà del corpo celeste o della Luna su cui, eventualmente, avrà collocato queste sue strumentazioni.
Questo principio ha subito delle evoluzioni, oggi, con il progresso dell’industria aerospaziale?
Oggi esistono attività che il legislatore del 1967 non poteva prevedere. C’è stata un’evoluzione in senso privatistico del progresso in campo spaziale. Ci sono nuove generazioni di imprenditori che non vogliono sfruttare lo spazio semplicemente inviando satelliti, ma estraendo risorse, colonizzando e realizzando città sui corpi celesti. Per questo il Trattato, che è soltanto composto di principi giuridici, pur essendo stato un grande risultato per l’epoca, oggi è messo a dura prova.
Quali sono, allora, le principali difficoltà, oggi?
Il problema principale è inquadrare le nuove attività che la tecnologia ci consente di realizzare, all’interno di un quadro giuridico “vecchio”, fatto di principi vaghi, figli di un’altra epoca. Ad esempio, il Trattato del 1967 non stabilisce soltanto il divieto di appropriazione, ma anche la piena libertà d’uso e di esplorazione dello Spazio, inclusa la Luna e gli altri corpi celesti. Allora dobbiamo chiederci: fino a che punto arriva questa libertà? La costruzione di una base sulla Luna non equivale, forse, all’occupazione del terreno sottostante? O ancora: l’estrazione di risorse da un piccolo asteroide o il suo completo consumo, non equivalgono alla sua appropriazione? La legge prescrive che non si possa diventare sovrani di alcun corpo celeste, che non lo si possa occupare. Ma permane un dubbio sulla legittimità o meno di attività c.d. nuove. Prima fra tutte vi è l’appropriazione delle risorse minerarie di pianeti e asteroidi.
Quali soluzioni si possono ipotizzare per far chiarezza tra questi principi giuridici?
Alcuni hanno proposto di applicare un’analogia con la disciplina giuridica vigente oggi per il mare:trattare cioè le risorse dello Spazio come i pesci delle acque internazionali. L’idea è interessante, soprattutto perché il suo fondamento è, in realtà, nel diritto romano. Fu ai tempi di Roma, infatti, che ci si pose per la prima volta il problema di come regolare l’uso e i diritti di proprietà in quegli ambienti che apparivano infiniti agli occhi dei Romani. Il mare era fra questi. Vi si svolgevano tutte le attività essenziali (pesca, navigazione e commercio) per le popolazioni del tempo, non solo per Roma. Se si fosse concessa l’appropriazione del mare, limitando il godimento di certe sue parti a beneficio di pochi potenti, ciò avrebbe comportato gravi disfunzioni per le altre società. Era impensabile, per i Romani, privare gli uomini del loro diritto ad utilizzare ed esplorare le acque. Era necessario, quindi, garantirne la non-appropriazione e la libertà d’uso.
Così fu creato l’istituto giuridico delle res communes omnium(cioè cose comuni a tutti). Ambienti senza proprietari pubblici né privati, ma il cui contenuto (le res nullius) – come ad esempio i pesci – era liberamente sfruttabile da chiunque. Dunque, applicando questa impostazione allo Spazio e ai corpi celesti, si può dire – per esempio – che un pianeta come Marte rappresenti una res communis omnium, protetta da rivendicazioni di sovranità ma che, allo stesso tempo, le risorse presenti su di esso siano liberamente sfruttabili. In altre parole: si rispetta il divieto di occupazione del corpo celeste (come stabilito dall’Articolo II), ma si concede l’appropriazione delle risorse estratte dal suolo, in quanto esercizio di quella libertà d’uso concessa dall’Articolo I del Trattato del 1967. Questa lettura potrebbe rappresentare la soluzione giusta, ma resta un cruciale problema: il libero svolgimento di attività minerarie va contro il divieto di appropriazione quando l’estrazione di risorse porta al completo consumo del corpo celeste. Questo è un concreto rischio per tutti quei progettiche mirano allo sfruttamento delle preziosissime risorse presenti sui corpi celesti di più piccole dimensioni: gli asteroidi.
Altre proposte?
Il fulcro del problema è che bisognerebbe applicare regimi diversi a oggetti naturalisticamente uguali: i corpi celesti (piccoli o grandi) non vengono differenziati dall’astrofisica. Ma non è la prima volta che il giurista si trova di fronte a questi dilemmi. Per esempio, nel ‘700 si dibatteva su una complessa questione: determinare fino a quale punto del mare lo Stato costiero potesse esercitare la sua giurisdizione, così da creare una zona diversa dalle c.d. acque libere (oggi “acque internazionali”). Scientificamente, il mare appariva sempre uguale, ma agli occhi del diritto doveva crearsi una separazione. La soluzione fu trovata in una linea convenzionale fissata ad una distanza di 3 miglia (oggi 12) dalla costa.Allo stesso modo, per me, la risposta al problema dell’appropriazione dei corpi celesti può essere trovata in una soluzione convenzionale.
Ciò che ho proposto è di creare una distinzione nel concetto legale di “corpo celeste”. Due categorie diverse di corpi celesti separati da una linea: la “Linea Vesta”. Il nome deriva dal più grande asteroide del Sistema Solare, il cui diametro equivale a circa 550 km. Su questa misura, nel modello che ho suggerito, si differenzia il regime dell’utilizzazione delle risorse contenute in essi. Uno più liberale e aperto ad attività di sfruttamento, l’altro più rigido e volto a salvaguardare i grandi pianeti e le grandi lune. Ovviamente non suggerisco una conquista indiscriminata di tutti i corpi più piccoli, ma auspico l’elaborazione di un regime giuridico più favorevole alle nuove attività spaziali, cosicché possa avvenire in un regime giuridico certo e chiaro.
Come è possibile regolare il ruolo degli imprenditori privati nella conquista delle risorse spaziali?
Molte aziende e molti investitori vorrebbero potersi muovere in un regime di neoliberismoeconomico, così da facilitare il fiorire di un’industria che è destinata a cambiare la storia dell’Uomo. Il rischio è la mancanza di controllo diretto sull’affidabilità e la correttezza delle attività private svolte sui corpi celesti. L’art. VI del Trattato sullo Spazio, per fortuna, ha brillantemente risolto il problema disponendo che gli Stati sono direttamente responsabili anche per le attività dei privati. Le attività poste in essere da un privato nello Spazio sono sotto la supervisione e la responsabilità del proprio Stato di provenienza. Questo collegamento tra autorità pubblica ed enti non-governativi rappresenta un caso unico nel diritto e svolge un’importante funzione di salvaguardia dell’ambiente extra-atmosferico.
Senza una regolamentazione di questo tipo, quali sono le prospettive dell’industria aerospaziale?
Esiste un’industria florida, che ha attirato investimenti milionari e che è pronta a partire, ma che appare ancora titubante a causa della mancanza di norme chiare. Senza un regime giuridico preciso, certo e aperto al cambiamento non sarà possibile garantirne l’espansione in maniera efficiente. Per questo servono regole nuove. Per questo, ho proposto il modello basato sulla “Linea Vesta”. Così si preserveranno i corpi celesti più grandi e si eviteranno iniziative avventate e portatrici di conflitti. La conquista dello Spazio inizierà nei prossimi anni, ma, alla luce dell’attuale regime di diritto internazionale, rischia di svolgersi in mancanza di limiti giuridici chiari.
Di fronte a un simile scenario, le attività spaziali potrebbero non essere più esempio di collaborazione internazionale e sforzo collettivo della specie umana. Anzi, rischiano di alimentare relazioni conflittuali tra gli Stati e lo sfruttamento indiscriminato dello Spazio. Nessuno ha ancora fatto il primo passo, ma U.S.A., Lussemburgo e Regno Unito spingono prepotentemente verso una liberalizzazione del mercato aerospaziale, mentre Cina e Russia vi si oppongono. Nella lentezza del diritto a trovare risposte, le tensioni aumentano.
Che futuro hanno, quindi, il diritto e la scienza dello spazio?
Esistono realtà istituzionali che sono già all’opera per costruire villaggi sui corpi celesti, strutture abitabili o cunicoli scavati nella Luna. Progetti scientifici privati, in tutto il mondo, studiano le potenzialità delle infinite ricchezze offerte dal cosmo. Si pensa, per esempio, di utilizzare le sostanze estratte dai corpi celesti per rifornire di carburante direttamente nello Spazio i satelliti in orbita, o per sostenere attività spaziali volte alla colonizzazione del Sistema Solare, abbattendo così i costi di spedizione di materie prime dalla Terra.
Il Diritto, invece, si muove a rilento. Percorre strade lunghe e in salita, sia per gli interessi politici che influenzano il gioco del diritto internazionale, sia per quella dimensione che affligge da sempre i giuristi: l’incessante rincorsa del progresso scientifico. Questa dimensione è stata descritta mirabilmente da Carl Christol, padre del diritto spaziale: “La scienza si libra in volo come un’aquila, mentre il Diritto si trascina come una tartaruga”. Ecco, in quest’ottica, ho proposto la “Linea Vesta”: uno strumento per permettere alla tartaruga di Christol di viaggiare veloce nella stessa direzione dell’aquila della scienza.
Intervista di Guido Casavecchia